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Giusy Neri

Sex work is work: COYOTE e il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute

“Il sex work è per definizione sesso consensuale. Il sesso non consensuale non è sex work; è violenza sessuale o schiavitù.”


Sono queste le parole riportate nel Manifesto delle e dei sex worker europei compilato a Bruxelles nel 2005, che si scaglia duramente contro una visione della realtà modellata su opinioni diametralmente opposte. Nell’ambito del dibattito pubblico, infatti, si tende a guardare al sex work come a un fenomeno monolitico, reiterando una narrazione pietistica e dai toni apocalittici, che dipinge le prostitute come vittime, tanto di uno sfruttamento esterno quanto di un’oppressione interiorizzata. Intorno al lavoro sessuale gravitano immagini stereotipate e spesso inverosimili, che deumanizzano le soggettività coinvolte, privandole di dignità e potere decisionale, ma soprattutto che, direttamente o indirettamente, criminalizzano la prostituzione.

Inoltre, nelle discussioni sul lavoro sessuale, le persone che praticano sex work non sono quasi mai protagoniste, ma compaiono piuttosto come oggetto di studio. Questo articolo, invece, si propone innanzitutto di chiarire cosa rientri nella definizione di lavoro sessuale e come e a quali scopi nasce il termine sex work. In secondo luogo, adottando un punto di vista opposto a quello dominante abolizionista, riporta le rivendicazioni di chi opera nell’industria del sesso e lotta affinché la propria professione venga riconosciuta come tale e perciò meritevole di diritti e tutele.


Definire il sex work

Affrontare la questione del lavoro sessuale non è affatto semplice, dal momento che questo costituisce da sempre un controverso oggetto di dibattito: per queste ragioni, sin dal primo convegno organizzato sul tema a New York nel 1971, il dibattito femminista sulla prostituzione sviluppa posizioni diverse, talvolta perfino opposte, generando una vera e propria Feminist Sex War. L’ambiguità che a oggi circonda l’industria del sesso appare più evidente se ci si sofferma a pensare che, nonostante i continui riferimenti quotidiani, resta ancora poco chiaro cosa sia sex work e cosa invece non lo sia, quante tipologie ne esistano e, soprattutto, cosa rivendichino i movimenti per i diritti delle e dei sex worker. Con lavoro sessuale si intende qualsiasi attività che preveda un accordo commerciale esplicito tra due o più parti, con il quale si stabilisce una retribuzione economica in cambio di un servizio sessuale, erotico o romantico concordato. Sex work è quindi un termine ombrello che racchiude molteplici tipologie di attività: il lavoro indoor offline in appartamenti, night club, centri massaggi; il lavoro outdoor in strada; ma anche la pornografia, la vendita di contenuti audiovisivi o intimo usato, le cam, le linee erotiche e così via.

L’espressione sex work viene coniata nel 1978 a San Francisco, dove il collettivo femminista anti-porno Women Against Violence in Pornography and Media organizza la prima conferenza sul tema. L’attivista americana e femminista Carol Leigh, appartenente al gruppo COYOTE, propone di titolare un panel Sex Work Industry, anziché Sex Use Industry, come le era stato invece suggerito dalle organizzatrici. Il termine diventa di uso comune nel 1987 con la pubblicazione del testo Sex Work: Writings by Women in the Industry, a cura di Frédérique Delacoste e Priscilla Alexander. In Italia, invece, si dovrà attendere il 1994: l’espressione sex work è utilizzata per la prima volta da Pia Covre e Carla Corso, fondatrici nel 1983 del Comitato per i diritti civili delle prostitute. L’introduzione di questa formula fa capo a una rivendicazione politica ben precisa: “l’uso del termine sex work definisce la nascita di un movimento. Riconosce il lavoro che facciamo piuttosto che definirci per il nostro status”[1]. Concepito come termine neutro e non stigmatizzante, atto a veicolare l’idea di una professionalità del lavoro sessuale, tale espressione invita a considerare la prostituzione come un’attività che produce reddito attraverso le risorse del corpo e pone l’accento sulla collocazione sociale di coloro che sono impegnati nell’industria del sesso, anziché sulla sessualità o sul genere. La parola sex work, infatti, interrompe la connessione semantica tra femminilità e prostituzione, costituendo la scelta migliore per includere non solo la pluralità delle soggettività coinvolte nei mercati sessuali, ma anche la grande varietà dei servizi.


Il dibattito negli anni ‘70 e COYOTE

Riconoscere la matrice patriarcale del lavoro sessuale non significa negare che per chi lo pratica il sex work assuma un significato di indipendenza, libertà e autonomia. Su queste basi operano i gruppi autorganizzati di lavoratrici del sesso che, dalla seconda metà degli anni ‘70, costruiscono un terreno di rivendicazione politica orientato al riconoscimento di soggettività e diritti. È a loro, infatti, che si deve l’elaborazione, sia teorica che politica, di una visione alternativa dello scambio sessuoeconomico capace di rendere conto delle complessità che lo caratterizzano.


La prima organizzazione di lavoratrici del sesso è COYOTE o Call Off Your Old Tired Ethics (Ritira la tua vecchia etica stanca), fondata da Margo St. James nel 1973 a San Francisco. Come suggerisce l’acronimo stesso, il gruppo intende abbattere lo stigma che circonda il lavoro sessuale, spesso generato e accompagnato dal rifiuto e dalla discriminazione che una certa morale collettiva impone su tutto ciò che riguarda la sessualità. Concentrandosi sulle pratiche discriminatorie delle forze dell'ordine contro le prostitute, sul discorso femminista della violenza contro le donne e sull'AIDS, COYOTE sfida l’immagine dominante della prostituta come donna deviante o vittima, proponendo nuovi significati e valori.

Le istanze e i programmi di COYOTE adottano un approccio radicalmente diverso nella risoluzione dei problemi riguardanti le sex worker: anziché considerarle soggetti immorali da “riabilitare” per la loro condotta, così come facevano le Case Magdalene, COYOTE inverte il paradigma. Le donne non vanno salvate, ma rese coscienti e consapevoli. A questo scopo vengono organizzati veri e propri gruppi di autocoscienza femminili, durante i quali condividere le proprie esperienze lavorative. Con COYOTE, le prostituite escono allo scoperto non in un atto di confessione, ma per professare e rivendicare le loro vite e i valori che esprimono. Allo stesso tempo, la campagna di COYOTE offre nuove definizioni e punti di vista, ridefinendo la prostituzione come un problema sociale.


Il cuore della critica radicale sollevata dal collettivo è costituito dal concetto di lavoro. Se si vuole costruire una nuova immagine del lavoro sessuale, secondo Margo St. James, è fondamentale abbandonare le istanze abolizioniste e ribadire che “la prostituzione non equivale al sesso a pagamento e una prostituta non vende il proprio corpo, ma viene pagata per il suo tempo e le sue abilità, con un prezzo che dipende da entrambe le variabili. Operare una distinzione tra l'essere pagati per un'ora di servizi sessuali, un'ora di dattilografia o un'ora di recitazione su un palco è operare una distinzione che di fatto non esiste”[2]. Seguendo questa linea, COYOTE articola le proprie istanze in tre diversi punti: in primo luogo, sottolinea la necessità che la prostituzione non venga associata al concetto di criminalità, ma a quello di lavoro; in secondo luogo, sfatando le narrazioni dominanti, sottolinea come la prostituzione possa essere scelta volontariamente; infine, afferma con forza l’urgenza che il lavoro sessuale sia considerato una professione vera e propria e per questo rispettato e tutelato. A questo proposito, Dolores French, presidente del COYOTE della Florida, sostiene che “una donna abbia il diritto di vendere servizi sessuali tanto quanto di vendere il suo cervello a uno studio legale quando lavora come avvocata, o di vendere il suo lavoro creativo a un museo quando lavora come artista, o di vendere la sua immagine ad un fotografo quando lavora come modella o di vendere il suo corpo quando lavora come ballerina. Dato che la maggior parte della gente può fare sesso senza andare in prigione, non c'è ragione se non il moralismo per rendere illegale la prostituzione” [3]. Screditando la convinzione comune secondo cui nessuno potrebbe mai decidere di svolgere un’attività così degradante, COYOTE Howls, la newsletter occasionale a cura dell'omonima organizzazione, riporta che "la maggior parte delle donne che lavorano come prostitute hanno preso una decisione consapevole dopo aver esaminato una serie di alternative di lavoro"[4]. Di conseguenza, "dobbiamo esigere il diritto di queste donne di optare per la prostituzione se questa è la loro scelta. Non possiamo negare alle donne una scelta" [5]. In quest’ottica, negare l'opzione di lavorare come sex worker corrisponde a una violazione dei diritti civili.

Le rivendicazioni finora descritte si scagliano duramente contro le istanze abolizioniste, ma è con la campagna per decriminalizzare la prostituzione che COYOTE si inserisce definitivamente all’interno del discorso femminista. Alle femministe e al pubblico in generale, COYOTE si presenta come un gruppo di riforma con lo scopo di educare al riconoscimento del doppio standard sessuale e sociale insito nell'applicazione delle leggi sulla prostituzione. Infatti, nonostante lo scambio sessuoeconomico richieda la presenza di almeno due individui, il venditore e l’acquirente, il crimine ricade unicamente sulla lavoratrice sessuale. Alla fine del 1973, viene perciò lanciata la prima grande campagna pubblica che denuncia la matrice sessista degli arresti per prostituzione: la polizia prende sistematicamente di mira le donne, anziché applicare equamente le disposizioni legislative. La violenza contro le donne, secondo le attiviste di COYOTE, si intreccia saldamente alla questione della prostituzione, poiché la decriminalizzazione di quest’ultima, argomenta la fondatrice del collettivo, potrebbe portare una riduzione dei casi di violenza di genere. Margo St. James, inoltre, denuncia la paradossale distinzione generalmente operata tra lavoro sessuale e pornografia, che di fatto “permette ai maschi bianchi di vendere i corpi delle donne, ma non alle donne stesse di vendere i loro corpi" [6].

Le rivendicazioni di COYOTE, pertanto, separano definitivamente la prostituzione dalla sua associazione storica con il peccato e la criminalità, per collocarla saldamente all’interno della sfera del lavoro e dei diritti civili. Inoltre, l’adozione di nuove terminologie, quali "lavoro sessuale" e "prostituzione volontaria", produce delle conseguenze dirette sul modo in cui questo determinato fenomeno è concepito, valutato e trattato.


L’Italia e il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute


In Italia questo movimento fa capo al Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute (CDCP). Fondato nel 1983 da Pia Covre e Carla Corso, pur non rivendicando per il commercio sessuale lo statuto di un “lavoro come un altro”, si batte per ottenere leggi non discriminatorie, che proteggano la libertà personale, il rispetto della dignità e l'uguaglianza di fronte alla legge di chi esercita la prostituzione. Nello specifico, gli obiettivi dichiarati sono tre: la modifica della legge Merlin e la depenalizzazione di alcuni reati, come il favoreggiamento; l’apertura di un dibattito sulla prostituzione e la sensibilizzazione della “gente per bene”; l’abbattimento dell’immagine stereotipata della sex worker e la messa in discussione della sessualità maschile. L’operato del Comitato, che continua tutt’oggi, si basa sull’assunto che la prostituzione sia un’occupazione da poter scegliere liberamente a partire dal valore che si attribuisce al lavoro, dalla propria esperienza della sessualità e dai costi e benefici che tale scelta presenta rispetto ad altre. A questo proposito, Pia Covre afferma:




Se dico che svolgo un lavoro sessuale mi dicono che questo lavoro non esiste. Siamo comunque in un settore totalmente fuori da ogni riconoscimento legislativo di tipo lavoristico. Ed è questo il problema. Noi abbiamo sempre chiesto che venga riconosciuto che questo è un lavoro, per chi è maggiorenne e vuole farlo liberamente e in modo autonomo. Questo punto non è mai stato preso seriamente in considerazione, anche se sono spuntate molte proposte di legge, fatte o per la regolamentazione rigida, o per una regolarizzazione morbida, o per un’abolizione totale [8].


Il Comitato non ha mai negato la matrice patriarcale del lavoro sessuale, i cui consumatori altro non sono che il riflesso di una cultura maschilista che pretende di esercitare il proprio controllo sul corpo e sulla sessualità femminili, anzi le sue istanze mantengono sempre una forte connotazione pratica. Viene, infatti, ribadita con forza la natura spiccatamente sociale del fenomeno della prostituzione, mai ridotto a un problema di ordine pubblico, ma a una questione che coinvolge tutti i cittadini.


La società nel suo insieme è responsabile di questo fenomeno: sono responsabili i clienti che con la loro richiesta stimolano un mercato sempre più vario e diversificato anche nella qualità dell’offerta; sono responsabili la povertà, la miseria e le guerre che inducono migliaia di persone ad affidarsi ai trafficanti internazionali che le sfrutteranno nei mercati del sesso o del lavoro nero; c’è la responsabilità di un sistema consumistico che propone modelli e stili di vita che inducono a cercare percorsi che sembrano “facili” per raggiungere posizioni economiche e sociali di autentico o falso benessere; c’è infine un radicato pregiudizio nei confronti di persone considerate “diverse” per le loro scelte sessuali non conformiste e che rende difficile il loro inserimento nel settore del lavoro tradizionale [9].


In particolar modo, l’intero operato del Comitato è finalizzato alla depenalizzazione del lavoro sessuale, piuttosto che alla sua regolamentazione. Infatti, a causa della forte stigmatizzazione a cui è soggetta chi si prostituisce, una regolamentazione costringerebbe inevitabilmente chi esercita tale professione a rendersi “riconoscibile” in pubblici registri. Decriminalizzare il lavoro sessuale, al contrario, significa affrontare la questione con metodi nuovi, che riconoscano la libertà di disporre del proprio corpo come meglio si ritiene, il diritto all’autodeterminazione sessuale e il rispetto dei diritti umani e civili. A questo proposito, la legge Merlin, pur essendo di matrice abolizionista, presenta alcuni punti fondamentali, quali il divieto di schedare le sex worker e la necessità di rispettare la dignità e i diritti umani e civili di chi esercita la prostituzione. Proprio per questo, secondo Pia Covre, il corrente modello legislativo deve fungere da punto di partenza per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di chi esercita la prostituzione e della qualità dei rapporti fra cittadini, sex worker e istituzioni.

Sul piano pratico, il Comitato sottolinea come la criminalizzazione del lavoro sessuale e il conseguente grado di autonomia delle sex worker influiscano direttamente sulla vulnerabilità e sul benessere delle lavoratrici: in ambienti favorevoli, chi vende può avere maggior controllo sul cliente e sulla scelta di pratiche sessuali più sicure, ma in ambienti meno favorevoli non gode della stessa autonomia, in particolare se esposto a repressione e abusi da parte delle forze dell'ordine. Al fine di evitare ciò, il Comitato chiede che sia consentito il lavoro in casa, intesa come luogo privato in cui ricevere i clienti. In egual modo, va garantita la possibilità di fare pubblicità e contrattare in strada o in pubblici locali senza limitazioni, pur nel rispetto delle leggi che regolano il vivere civile. Inoltre, l’esercizio della prostituzione, nell’ottica di Covre, è saldamente intrecciato al concetto di autorganizzazione: chi lavora nel commercio del sesso deve essere indipendente da qualsiasi contratto e, per ragioni di sicurezza, deve essere consentito l’uso dello stesso appartamento ad almeno tre sex worker.

Tuttavia, sostenere l'autodeterminazione e l'autonomia delle prostitute non coincide con la negazione della presenza dello sfruttamento all’interno dell’industria del sesso. Per incentivare la lotta alle organizzazioni criminali, il CDCP ribadisce la necessità che le persone sfruttate siano incoraggiate a denunciare. A questo scopo, vengono proposte misure atte a offrire tutela e benefici legali a coloro che denunciano, quali la concessione del permesso di soggiorno, in caso di soggettività migranti, la possibilità di accedere ad un lavoro diverso, qualora non si desideri rimanere nel mercato del sesso e l’erogazione di sussidi economici.


Conclusioni

La visione della prostituzione come una forma di devianza femminile ha prodotto nel tempo forme di controllo delle sex worker che andavano dalla ghettizzazione alla creazione delle case chiuse: private di qualunque diritto civile, sottoposte a trattamenti sanitari obbligatori, marginalizzate dalla vita sociale. Attualmente in Italia la prostituzione è formalmente lecita, ma tutto quello che la circonda è criminalizzato. Proprio per questo è necessario ribadire che il sex work è una forma di lavoro e deve essere trattato come tale. Ovviamente, ciò implica l’inserimento in un sistema di disuguaglianze sociali, economiche, razziali e di genere. Questa visione deve però accompagnarsi a una serie di principi fondamentali: in primo luogo, chi pratica sex work deve avere il diritto di lavorare nell'industria del sesso senza essere perseguito, ragion per cui vanno eliminate le leggi che criminalizzano il lavoro sessuale volontario; secondariamente, il consenso deve essere centrale, pur riconoscendo che non tutti abbiano lo stesso potere di contrattazione nel sesso transazionale (a seconda della loro classe o del loro status di migranti, per esempio); in ultimo, deve essere dato sempre più spazio alle sex worker nel dibattito che le riguarda, contrastando la narrazione pietistica che vuole far credere che le persone che fanno sex work siano una cosa sola.

È per questo che il sex work è e dev’essere un’opzione tra cui scegliere e per cui sono necessari dei diritti.






















Per approfondimenti:


Chateauvert M., Sex Workers Unite: A History of the Movement from Stonewall to Slutwalk, Boston, Beacon Press, 2014.

Corso C., Ritratto a tinte forti, Firenze, Giunti, 1991.

Garofalo Geymonat G., Vendere e comprare sesso, Bologna, il Mulino, 2014.

Jenness V., From Sex as Sin to Sex as Work: COYOTE and the Reorganization of Prostitution as a Social Problem, in Social Problems, Vol. 37, No. 3 (1990), pp. 403-420.

ICRSE, Feminism needs sex workers, sex workers need feminism: towards a sex-worker inclusive women’s rights movement, in Intersection briefing paper, 2, 2016.

Mac J., Smith M., Revolting Prostitutes, New York, Verso Books, 2018.

Selmi G., Sex Work. Il farsi lavoro della sessualità, Bologna, Bèbert, 2016.

Zollino G., Sex work is work, Torino, Eris Edizioni, 2021.



NOTE:

[1] C. Leigh, Inventing Sex Work, in “Whores and Other Feminists”, New York, Routledge, 1997.

[2] W. Chapkis, Live Sex Acts: Women Performing Erotic Labor, New York, Routledge, 1997.

[3] S. Jeffreys, The Idea of Prostitution, North Geelong, Spinifex Press, 1997.

[4] COYOTE, COYOTE Howls, N. 1, 1988.

[5] M. St James al The Phil Donahue Show, 1980.

[6] M. Anderson, “What better place to discuss sin and sex?”, Alameda Times-Star, 14, 1984.

[7] “Questo non si può considerare un lavoro come un altro, per la delicatezza implicita della parte di sé che si mette in gioco (Comitato per i diritti civili delle prostitute e MIT, 1994).

[8] Falcone G., “Diritti civili delle prostitute: intervista a Pia Covre”, Mentinfuga, 2020, https://www.mentinfuga.com/diritti-civili-delle-prostitute-intervista-a-pia-covre/.

[9] Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute ONLUS, Proposta politica, Pordenone, 1994.




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