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Immagine del redattoreFrancesca Carbonara

SPAZI DI ESCLUSIONE: LA PRESENZA DEL CARCERE IN GIUDECCA

Di Maddalena Tosi

Per indagare gli spazi di esclusione e i luoghi che con essa confinano, ho intervistato una giovane abitante dell'isola di Giudecca, Elena, in merito alla presenza della Casa di Reclusione femminile.

In particolare, mi incuriosiva indagare come viene percepita la struttura da chi vive geograficamente a contatto con essa, senza averci in realtà fisicamente nulla a che fare.

L'isola di Giudecca, lunga e stretta, si sviluppa lungo l'omonimo canale, fronteggiando le Fondamenta Zattere dell'isola di Venezia, ed è un'area prevalentemente residenziale nel tessuto urbano, che conta circa quattromila abitanti. Il carcere, situato nel quadrilatero delimitato da Calle delle Convertite, Rio San Biagio e la laguna, nasce nel XII secolo come monastero, utilizzato dal 1600 come casa di reclusione per prostitute (le "convertite"). È diventato infine una prigione sotto il governo austriaco di Venezia nel 1859, mantenendo fino ad ora questa funzione. Oggi la casa di reclusione conta 68 detenute. L'edificio di tre piani e serie di finestre tutte uguali, è intonacato di chiaro, immedesimandosi pienamente nei colori del complesso abitativo.

L'intervistata, Elena, è una studentessa che vive a Venezia da sei anni, ma solo da due nell'isola di Giudecca: la sua testimonianza si riferisce quindi a una situazione abitativa post pandemica. Le sue parole possono essere davvero interessanti, perché esprimono il punto di vista di una donna giovane che conosce Venezia e le sue isole, senza però esserci nata: il suo punto di vista perciò è più distaccato e fresco rispetto a quello di una persona nativa.



La spazialità del carcere. Come si integra nella geografia urbana dell'isola? Una cosa interessante dal mio punto di vista è che nessuno ha il carcere davanti a casa, nessuno lo vede dalla finestra. La casa di reclusione infatti è costruita su una fondamenta, di fronte alla quale ci sono solo magazzini e rimesse per barche.

È escluso in questo modo dalla vita domestica degli abitanti di Giudecca. Nessuno ci abita vicino. È posto fuori dal tessuto visivo urbano, per quanto questo sia fitto.

La visibilità, secondo te, è rilevante?

Non so se lo sia per i cittadini in generale. Una cosa che mi ha colpito sempre però sono le scritte presenti su alcune porte del carcere, che credo siano opera delle detenute stesse. Una, in particolare, recita: "Guardoni del c****".

Questo però non è un paradosso, rispetto a ciò che mi hai detto prima sulla spazialità? Probabilmente qualcuno ha reso comunque la struttura e le sue abitanti materia di sguardi indesiderati.

Secondo me sono queste donne in primis a non voler sentirsi osservate, sentirsi oggetti da esposizione a causa delle scelte sbagliate che hanno fatto nella loro vita.

Per concludere, secondo te la presenza del carcere influisce sulla vita quotidiana degli abitanti dell'isola?

No, secondo me per nulla. Non è nella via principale, anzi, in una via quasi nascosta. Non mi è mai sembrato che ci fossero strane situazioni; ad esempio, non ho mai visto polizia intorno alla struttura, né guardie carcerarie in divisa. A livello proprio visivo, sembra che non ci sia vita all'esterno delle mura.

Però so che all'interno si svolgono alcune attività, anche aperte alla cittadinanza. Hanno un orto di cui vendono i prodotti, ad esempio.

Per il resto, è una presenza quasi invisibile.


Prima del Covid ogni giovedì le detenute che avevano il permesso vendevano fuori dal carcere, a titolo volontario, i prodotti coltivati all'interno. Presso le Fondamenta dei Frari, nel Sestiere di San Polo, si trova il negozio "Process Collettivo - Malefatte", che vende oggetti, come borse o elementi di cosmesi, prodotti dalle detenute e dai detenuti della Casa di Reclusione femminile di Giudecca e del carcere maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia. Tramite questi oggetti possiamo, anche se indirettamente, entrare in contatto con persone altrimenti nascoste ai nostri occhi dalle mura del carcere.

Ringrazio Elena, che durante la nostra chiacchierata ha fatto delle foto agli spazi da lei descritto, e la saluto, chiedendomi quanto la posizione liminare del carcere sia stata voluta da chi lo ha costruito, e quanto essa contribuisca alla nostra percezione dello "spazio di eccezione", luogo per eccellenza di esclusione, che deve essere tenuto lontano dagli occhi dei cittadini "normali". Ma quanto è normale voler tenere lontano dalla vista, e dalla coscienza, un luogo che è parte integrante del tessuto urbano e sociale?




(Per le attività del carcere, segue articolo-intervista sul teatro in carcere)




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