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Curare le mutilazioni genitali femminili

Anna Dal Pont

di Francesca Orsini

 

«La mutilazione genitale femminile, MGF, tocca molti argomenti tabù: la violenza fatta su donne e bambine, la sessualità e gli organi genitali» dichiara Jasmine Abdulcadir, ginecologa responsabile dell’Unità Urgenze di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Universitario di Ginevra. «È essenziale l’accesso ad un’informazione scientifica, non vittimizzante, senza stigmatizzazione, che faccia prendere coscienza in modo tale che la donna possa scegliere della sua salute».

 

Abdulcadir è una ginecologa con formazione in patologia e chirurgia vulvare e medicina sessuale. Nel 2010 ha fondato all’ospedale universitario di Ginevra, un ambulatorio per la presa in carico multidisciplinare delle mutilazioni genitali femminili. Da anni si dedica alle cure, alla ricerca e alla formazione su questo tema. Suo padre, Omar Abdulcadir, ginecologo, è l’antico fondatore e direttore del Centro di riferimento per la cura e la prevenzione delle conseguenze delle MGF, aperto all’ospedale di Careggi a Firenze nel 2003 e chiuso al suo pensionamento. Abbiamo raccolto la testimonianza della professoressa Abdulcadir per discutere delle mutilazioni genitali, pratiche che consistono nel taglio delle labbra e/o del clitoride, fino alla chiusura dell’orifizio vaginale e urinario (l’infibulazione), tra le altre possibili tipologie.


Si tratta di un fenomeno che ci può apparire lontano, ma che in realtà è presente anche sul nostro territorio e in molti altri paesi dell’Unione europea. L’European Institute for Gender Equality (EIGE) stima che circa 600mila donne e bambine in Europa sono state sottoposte alla pratica e altre 180mila sono a rischio in 13 paesi europei.


In Italia è ancora un fenomeno sommerso, secondo gli istituti che si occupano di monitorare la situazione, come le sezioni italiane di Amref Health Africa o ActionaAid, non esistono dati complessivi. In particolare, ad esserne coinvolta è la parte di popolazione arrivata in Italia attraverso i flussi migratori: bambine, ragazze e donne che prima di partire sono sottoposte a questa pratica. Nascere in Italia, in famiglie con un trascorso migratorio, non impedisce automaticamente di essere sottoposte a questa pratica che è stata condannata dalle convenzioni internazionali sui diritti umani delle Nazioni unite e dagli accordi regionali.


Nura Musse Ali, Referente amministrativa del Centro regionale di riferimento per le mutilazioni genitali femminili e la chirurgia ricostruttiva dell’apparato genitale femminile di Pisa spiega che «I pediatri hanno un ruolo fondamentale nel campo nella prevenzione, perché sono loro che si interfacciano con l’età dell’infanzia, il momento in cui queste pratiche vengono perpetuate».


Nura Musse Ali è di origine somala e ha subito mutilazione genitale femminile a pochi mesi di vita. Dopo gli studi in ambito giuridico e gli anni di attività spesi nel contrasto delle MGF è diventata componente della Commissione regionale delle Pari opportunità della regione Toscana. Durante questo mandato, insieme alla Regione Toscana, si è impegnata per realizzare l’adeguamento del servizio sanitario nel campo delle mutilazioni genitali. Uno dei problemi è quello della formazione del personale medico, ma anche l’educazione sanitaria nelle pazienti stesse: «l’attività di de-infibulazione (l’apertura della cicatrice che permette di riesporre l’orifizio urinario e vaginale) in certi luoghi viene infatti ancora demandata agli ambulatori ginecologici. Essi però non hanno le competenze necessarie per la ricostruzione chirurgica, che è molto complessa: per la rimozione delle cicatrici e la ricostruzione serve in particolare un chirurgo plastico specializzato nella ricostruzione vulvare. «Nel giugno del 2023 la Regione Toscana ha introdotto per la prima volta in Italia e in Europa l’opportunità per ragazze e donne con MGF di poter effettuare la chirurgia ricostruttiva e rigenerativa da parte di un team multidisciplinare di alto livello, dentro la sanità pubblica», dice Nura Musse Ali.


Per conoscere quali siano le principali comunità a rischio, è stato centrale il contributo di Benedetta Balmaverde, project manager di ActionAid: «Secondo un’indagine del 2019 circa 5.000 bambine sono a rischio in Italia, di cui la maggioranza appartiene alla comunità egiziana e nigeriana. Nel caso delle donne nigeriane, le mutilazioni sono praticate solo in alcuni gruppi etnici: tendenzialmente le bambine vengono tagliate entro gli otto giorni di vita. Il taglio viene visto come una “circoncisione femminile”, seppure con conseguenze sanitarie e motivazioni molto differenti da quella maschile».


Per quanto riguarda i casi riscontrati all’interno della comunità egiziana, Balmaverde riporta che la pratica ha luogo nella preadolescenza e per l’80% viene eseguita da personale sanitario all’interno di cliniche private: «Nonostante l’illegalità, in Egitto c’è sempre più medicalizzazione della pratica, con l’idea che sia meno rischiosa e quindi più accettabile. Nonostante il minore rischio di infezioni, le conseguenze psicologiche e il danneggiamento dei tessuti rimangono uguali».


L’aspetto forse più vicino alla nostra quotidianità è quello che riguarda la questione dei viaggi. Quando le bambine vengono portate nei paesi di origine durante i lunghi periodi di vacanza, il rischio di MGF aumenta. «Tendenzialmente è prima ancora dell’accaduto che le bambine chiedono aiuto ed è importante per le figure educative sapere quali sono i campanelli di allarme: durante le ore scolastiche a volte emerge che le bambine torneranno a casa e ci sarà una grande festa» segnala l’operatrice di ActionAid. «La facilità dei viaggi varia dai permessi di soggiorno. Con la protezione internazionale la persona non può tornare al paese di origine e non rientrando il rischio non c’è. Quando, invece, le famiglie sono arrivate con permessi di lavoro o di ricongiungimento familiare, possono andare e tornare con il passaporto, oppure se la famiglia è già alla seconda o terza generazione, hanno anche cittadinanza italiana».


La mancanza di dati non ci mostra un quadro chiaro per quanto riguarda i viaggi dall’Europa. Jasmine Abdulcadir afferma che il suo ambulatorio accoglie dalle 20 alle 30 persone al mese dal 2010, ma non ha mai avuto casi di bambine escisse, circoncise o infibulate durante un viaggio all’estero o sul suolo elvetico. «Sia in clinica, sia in uno studio che abbiamo appena terminato nella comunità eritrea e somala a Ginevra, che nella letteratura disponibile in Gran Bretagna e Svezia, si osserva che nella maggior parte dei casi la pratica viene abbandonata con la migrazione. Tuttavia, per prevenire il fenomeno è fondamentale esplorare il pensiero della famiglia, non solo quello del nucleo più stretto ma anche dei familiari che vivono nel paese di origine».


Nella prevenzione e protezione sono centrali alcune figure professionali: «I pediatri, se formati sul tema, hanno un ruolo privilegiato: sono a stretto contatto sia con la bambina che con la famiglia, e vedono la minore prima e dopo il viaggio». Prevenire passa anche attraverso la decostruzione di alcuni miti culturali legati alle mgf. Spiega Abdulcadir «dove si fanno alcune forme di mutilazione si crede che non tagliare il clitoride possa rendere ipersessuale la bambina quando crescerà, dove si pratica l’infibulazione, gli organi chiusi vengono considerati belli, puliti. Urinare lentamente senza far rumore, che può essere una conseguenza dell’infibulazione, è reputato femminile, educato. Decostruendo questi miti si promuove la salute riproduttiva e sessuale. Anche nei paesi di arrivo ci sono molte credenze errate, a volte anche fra gli stessi professionisti della salute: per esempio che la donna dopo essere stata sottoposta ad una MGF non possa più provare piacere sessuale, o che alcune conseguenze non si possano curare».


Dinamiche di stampo patriarcale giocano evidentemente un ruolo nella sua instaurazione e trasmissione. In particolare, la MGF ha uno stretto collegamento con il matrimonio perché, come ricorda Nura Musse Ali «il pensiero che sottostante alla mutilazione è che il corpo della bambina viene considerato già nella sua futura posizione sociale di donna, madre e moglie, la donna viene considerata nel momento in cui soddisfa queste funzioni».


In alcuni gruppi sociali, la pratica è considerata una garanzia di verginità e purezza prematrimoniale, uno strumento di controllo con il quale la comunità si assicura della “purezza” della donna. Madri, zie e nonne, tramandano la pratica su figlie e nipoti, perché considerata l’unico modo per assicurare loro un futuro marito valido e l’accettazione della comunità d’appartenenza. Lo sguardo sociale potrebbe non scomparire anche quando la donna si sposta dal suo paese d’origine: racconta Nura Musse Ali che «è necessario liberarsi da questo sguardo perché il diritto alla salute è un bene primario della persona. Infatti, è irrinunciabile pretendere la ricostruzione fatta da specialisti con effettive abilità nella chirurgia plastica vulvare. Le strutture sanitarie qualificate di norma hanno un approccio etico e quindi multidisciplinare alla tematica, dotandosi anche strumenti linguistici e culturali per guidare le pazienti verso la migliore terapia disponibile».


Spesso la persona con MGF non è semplicemente consapevole di poter avere accesso ad una serie di cure efficaci per il trattamento delle conseguenze, di cui Abdulcadir ha offerto una panoramica. Dal punto di vista chirurgico esistono la deinfibulazione in caso d’infibulazione; la cura delle complicanze della cicatrice e la ricostruzione del clitoride se quest’ultimo è stato escisso. I trattamenti prevedono anche fisioterapia, terapia psicosessuale e del trauma, ed è importante non focalizzarsi solo sugli organi genitali, ma sulla persona. Presso l’ospedale universitario di Ginevra «circa il 50% delle pazienti che chiedono una ricostruzione clitoridea arrivano alla chirurgia, l’altro 50% si ritiene soddisfatto dopo un percorso non chirurgico. La chirurgia ricostruttiva è preceduta da almeno tre mesi di terapia psicosessuale, che poi seguirà la paziente anche nei mesi successivi all’operazione. È importante ricordare la grande diversità di storie, vissuti e bisogni. Più di un terzo delle nostre pazienti ha vissuto traumi diversi dalla mutilazione, che devono essere considerati nella promozione della salute psicofisica della persona».


Un grande lavoro di prevenzione e supporto viene fatto attraverso i progetti di ActionAid come Chain e Join our Chain: questi prevedono il ricorso alle cosiddette community trainers, persone facenti parte delle comunità che avviano una riflessione su queste pratiche con i loro referenti religiosi e culturali. L’aspetto religioso è importante, perché spesso si tende a rintracciare proprio nella religione l’origine delle mutilazioni, ma tale associazione non è del tutto corretta. Secondo Musse Ali, le mutilazioni sono nate prima dell’Islam, la pratica non è legata alla religione ma al minore riconoscimento dei diritti della donna. È uno strumento di controllo che non fa riferimento al Corano, in cui si parla solo di circoncisione maschile.


Le procedure avvengono per decisione della madre, in genere, perché i padri non sono coinvolti. Secondo loro, come riporta Balmaverde, è una decisione delle donne, ma molto spesso sono gli uomini a rifiutare di sposare una donna che non è stata “tagliata”, perché considerata impura e promiscua. Ovviamente, le varie comunità e gruppi etnici hanno approcci diversi alla pratica. «L’obiettivo attraverso gli incontri con le community trainers è avere gli uomini come alleati, scardinare l’idea patriarcale di donna “pura” e totalmente dipendente dal marito e informare sulle conseguenze sanitarie delle MGF».


Secondo Nura Musse Ali una delle conoscenze più significative è quella corporea: alcune donne sottoposte a mutilazione, difficilmente hanno esperienza fisica di una vita totalmente priva di malessere. Se le madri non si curano, rischiano di essere trascinate dalla cultura, dalle aspettative della tradizione di appartenenza. Se non succede niente che interrompa il corso di questi eventi, questa rischia di essere l’unica realtà che la donna conosce. Quindi, è importante costruire nuove realtà e nuove esperienze che abbiano come obbiettivo una maggiore consapevolezza e il benessere delle persone con vulva. «Questa è la via per l’abbandono, abbiamo bisogno di una generazione salva, o anche se sottoposta a mutilazione, deve poter avere gli strumenti di lettura adeguata».


CONTATTI IMPORTANTI:

Centro regionale di riferimento per le mutilazioni genitali femminili e la chirurgia ricostruttiva dell’apparato genitale femminile di Pisa: nura.musseali@ao-pisa.toscana.it 

Ambulatorio MGF dell’ospedale universitario di Ginevra: https://www.hug.ch/en/gynecologie/female-genital-mutilation 

 

 
 
 

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