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Anna Dal Pont

Cooptare femminismo in poche e semplici mosse: un manuale per capitalisti sagaci

LA TRAGICOMMEDIA DELLE MLM


Ti descrivo una scena; fermami se già sai come va a finire.

Una persona che non senti da un po’ ti scrive. Ha voglia di vederti, dice – che ne dici di un caffè? Tu accetti (errore). Magari proponi anche di vedervi a casa tua (grande errore). L’incontri, allora. Vi sedete, prendete qualcosa. All’inizio non c’è nulla di strano nella conversazione ma, quando si raggiunge l’inevitabile momento di stasi superati i convenevoli di rito, lei improvvisamente ti chiede: “Posso mostrarti una cosa?”

La “cosa” è un video, forse, oppure un opuscolo informativo, o un sito internet. In casi particolarmente sfortunati, un prodotto. Faccio un esempio totalmente casuale: una bevanda solubile dal vago retrogusto di terriccio, accompagnata poi da un video promozionale che ne denota le presunte caratteristiche curative.

A quel punto pensi: “Oh, no. Questa vuole vendermi ‘sta roba.”

Beh, non hai torto, non esattamente. A volte l’interazione in effetti finisce qui. Lei ti lascia un catalogo patinato, oppure il nome della sua pagina di vendite su Facebook, tu prometti di darci un’occhiata e decidere se comprare qualcosa, e il tutto finisce lì. Altre volte, invece, se sei il tipo giusto di persona (su questo ci torneremo), la proposta è leggermente diversa. E se ‘sta roba la vendessi tu?

Sipario. Applausi (?). Fine primo atto.

Forse è il caso di fare un po’ di chiarezza, mentre chi è sul palco si prepara: questo articolo non si prefigge di esaminare nel dettaglio tutto ciò che c’è da sapere sulle MLM. Sarebbe un’impresa assurda, ci si potrebbero scrivere libri, tesi e intere sceneggiature: moltɛ l’hanno già fatto! Per lo stesso motivo, non mi aspetto nemmeno di toccare tutte le sfaccettature di una possibile analisi femminista del fenomeno. Vorrei invece usare questo spazio come trampolino di lancio per una serie di ragionamenti riguardo l’intersezione di femminismo e capitalismo. Più nello specifico, di come il linguaggio della lotta transfemminista, dell’empowerment, dell’orgoglio LGBTQA+ e della lotta contro le discriminazioni razziali e di genere vengano costantemente co-optati dalla macchina capitalista come proverbiale dito dietro il quale nascondere i propri meri interessi economici, così da apparire virtuose agli occhi del pubblico d’oggi, così “attento” alle problematiche sociali; almeno in teoria. Dopo questa necessaria premessa, senza ulteriore indugio, via al secondo atto. Prima di tutto, cosa sono esattamente le MLM? Sarò breve. Le Compagnie di Multi-Level Marketing (MLM) – o di Network Marketing, come a volte vengono chiamate in Italia – sono aziende che fanno uso di una forma di vendita diretta, generalmente bypassando i negozi fisici grazie a propriɛ rappresentanti che, dopo aver acquistato uno stock di prodotto dall’azienda stessa, si occupano della sua distribuzione al pubblico. Questɛ rappresentanti sono fortemente incoraggiatɛ a reclutare altrɛ rappresentanti nella propria downline (catena di vendite), visto che otterranno una percentuale da ognuna delle vendite ottenute la esse. L’origine delle MLM è dibattuta (vedi appendice, in fondo), ma quello che è certo è che sono nate negli Stati Uniti, e in effetti gli USA dominano ancora il mercato, ottenendo il posto d’onore tra i primi 5 paesi per fatturato annuale con 40,1 miliardi di dollari nel 2020, seguiti dalla Cina con 19,18 miliardi (nonostante lo status semi-illegale delle MLM nel paese), Germania e Corea con un testa a testa di 17,97 e 17,75 miliardi, e poi il Giappone con 15,41 miliardi. L’Italia non si piazza nemmeno tra i primi 10 nel mondo, ma si accaparra un dignitoso terzo posto in Europa, dopo Germania e Francia, con 2,84 miliardi all’anno. Seconda domanda: qual è il problema in questo sistema di vendita? Per farla breve: è una piramide finanziaria (The Office docet), una catena di Sant’Antonio, un get rich quick scheme, che dir si voglia. Rispondo altrettanto velocemente alle due consuete obiezioni:

  • “Non possono essere catene di Sant’Antonio se c’è effettivamente un prodotto che viene messo in vendita!” I prodotti sono spesso di scarsa qualità, per massimizzare i guadagni, e anche quando non lo sono il reclutamento rimane comunque un fattore centrale per ottenere una quantità di guadagno che non sia irrisoria, anche perché molto spesso ciò che viene ottenuto con la vendita del prodotto basta appena a coprire le spese di acquisto del prodotto stesso dall’azienda: chi vende è, in realtà lə primə cliente.

  • “Anche un ambiente di lavoro normale presenta una struttura ‘a piramide’, allora anche quello è una truffa?” Sì, spesso lo è. Ma questo è un argomento per un altro giorno. Nel frattempo posso consigliarti una lettura al riguardo?

Per una percentuale estremamente elevata di chi ne fa parte è quasi impossibile guadagnare qualcosa tramite una MLM. Facciamo qualche esempio: nel 2020, solo il 56% dellɜ rappresentanti Amway (azienda che vende, non sempre con successo, di tutto e di più, dai cosmetici agli oggetti per la casa) è riuscito a vendere almeno un prodotto; nel 2017, nel Regno Unito, solo il 27%. Ma questo è un esempio controverso, un’azienda che ha avuto diversi screzi con la legge in passato. Giusto, perché allora non diamo un’occhiata ad una compagnia “virtuosa” come Tupperware, che moltɜ nemmeno sanno essere un’MLM. Nel 2017, in Canada, circa la metà dellɛ partecipanti era considerata “inattiva”, cioè con vendite lorde minori di CA$500 (circa €360); nella metà “attiva”, il 94% ha guadagnato CA$476 (€346) netti in un intero anno. Vogliamo un esempio più vicino a noi? Nel 2017, Herbalife (azienda multata dalla FTC e che combatte accuse di pubblicità medica ingannevole dal 1985 – nonché partner ufficiale del CONI) ha dichiarato che il 55% di chi vende i suoi prodotti in Italia ha guadagnato mediamente solo €362 in un interno anno. Intervallo. Forse è un po’ azzardato introdurre le Dramatis Personae oltre la metà spettacolo, però mi sembra doveroso, dopo aver definito il cosa, il dove, il come del fenomeno, aprire anche una breve parentesi sul chi. Qui è reperibile una lista di un gran numero di MLM tra cui, oltre quelle precedentemente nominate, si trovano LuLaRoe, Mary Kay, Young Living, Jeunesse, Shakeology, Do TERRA e molte altre – 656 in totale, con quasi altrettanti scandali collegati ad esse. Notevolmente assenti dalla lista sono Yves Rocher e Just Swiss, non considerate MLM nel senso stretto del termine; almeno nel caso di YR il collegamento ad esse è innegabile, visto che una delle sue succursali è Arbonne International. Non è difficile notare come molte di queste aziende siano specializzate nella vendita di prodotti per il benessere, per la cura della persona, di cosmetici, articoli per la casa, vestiti e accessori: complessivamente, nel 2020 rappresentavano circa l’80% dell’intera industria. Cos’hanno in comune? Sono, ovviamente, beni che la grande macchina del marketing è ben avvezza a promuovere aggressivamente alle donne. Non creerò grande scalpore, allora, quando vi rivelerò che, sempre nel 2020, il 74,4% di chi faceva parte di una MLM si riconosceva nel genere femminile. I numeri sono ancora più alti se scendiamo più nel dettaglio: le Americhe e l’Europa rispettivamente registrano l’80,2% e l’84,9% (con il Regno Unito che si aggiudica il primo posto al mondo, con un’incredibile 93,1%). Bene, ora che la scenografia necessaria è stata tutta messa al posto giusto, credo sia arrivato il momento di muoverci verso il terzo atto. Le MLM hanno una ricca storia di marketing al femminile. Di seguito alcune pubblicità della Avon, tutte pubblicate tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60.

Alcuni elementi presenti già in queste campagne vintage sono rimasti, specialmente per quanto riguarda il marketing ufficiale verso potenziali clienti.

Screenshot di parte della homepage di Avon.it [visitato 26/04/22 23:00]

Per quanto sarebbe interessante continuare ad analizzare questo tipo di pubblicità, è sul marketing verso potenziali associatɛ che mi preme far luce in questo articolo. Infatti, è proprio all’interno di queste immagini che credo sia più visibile il tentativo di appropriazione di linguaggi e ideologie femministe – o almeno in apparenza tali. Partiamo dall’ovvio, il fattore girlboss. O, almeno, della sua estetica: la prospettiva di una carriera che permetta un buon bilanciamento vita privata-lavoro, l’idea di un empowerment femminile intrinsecamente legato al successo commerciale, la promessa di una comunità che possa appoggiarti in ogni momento. Di seguito alcuni esempi di pagine “unisciti a noi”/“join us” dei vari siti web delle aziende.



Ciò che emerge in modo più chiaro da tutti gli esempi è come queste aziende non cerchino di vendere l’idea di un lavoretto, di qualcosa per arrotondare le entrate. O, almeno, raramente questo è presentato come punto d’arrivo: c’è sempre in ballo una fantasia di indipendenza finanziaria, dell’apertura di un’attività in proprio di successo, di una grande “famiglia” di addettɛ ai lavori che ti fanno da cheerleader durante ogni momento della tua vita. Certo, pensandoci troppo a fondo il sogno si spezza immediatamente; dopotutto, come puoi essere “il tuo stesso capo” [cit.] se non hai alcun controllo sul tipo di prodotti che vendi, sulla loro qualità, sul loro prezzo, e spesso nemmeno sul contenuto dello stock stesso che ricevi dalla compagnia per la quale sei rappresentante? Senza contare il fatto che spesso, per mantenere il proprio status all’interno di una MLM, è necessario acquistare una certa quantità di prodotto – notare bene come si tratti di acquistare non vendere il prodotto – durante l’arco dell’anno. E se non riesci a venderlo? Beh…


La cosa è resa ancora più grave dal target del marketing delle MLM: raramente si rivolge a persone con entrate stabili e sufficienti a vivere dignitosamente. Quindi chi è lə candidatə ideale? Madri single, casalinghe, studenti, chi fa parte di minoranze etniche, o comunque in momenti vulnerabili della propria vita. Come tutti i culti che si rispettino, dopotutto. I volantini pubblicitari che millantano i guadagni “sicuri” e “facili” trovano spazio nelle sale di attesa dei centri per l’impiego, nelle case parrocchiali, sui banconi dei bar; post che ritraggono tutti i premi ottenuti grazie alle vendite effettuate riempiono i feed di Instagram: Mercedes, borse di lusso, vacanze ai caraibi, o a Disneyland, così anche i bambini si divertono. Perché tu la vuoi una vita migliore, più agiata per i tuoi figli, no? Ma non vorresti vivere a Los Angeles e guidare una Lamborghini nuova fiammante, invece che preoccuparti di dove trovare i soldi per pagare le tasse universitarie e l’affitto (tratto da una conversazione che ho realmente avuto)? Noi crediamo nel tuo potenziale di donna! Ma crediamo soprattutto al potenziale del tuo portafoglio. La più grande illusione delle MLM è chi siano lɛ loro verɛ clienti.

Ma per il gran finale dobbiamo spostarci dalle immagini ai video, che contengono forse le istanze più eclatanti di distorsione del messaggio femminista. Torniamo ancora una volta dallɛ nostre “amichɛ” di Avon.

“Davvero pensavi di conoscermi? Guardami ora. Sono una mamma realizzata, amo e vivo la bellezza. Prima avevo un capo, ora il capo sono io. Guardami. Ora. Vendi Avon anche online, quando vuoi, dove vuoi. Diventa consulente ora.”

Questo illuminante adagio è la trascrizione diretta di una pubblicità di Avon su YouTube, datata 2020. Riesce quasi difficile trovare qualcosa da dire. Non si spiega forse da sola? La sua palette aggressivamente rosa, la musica “accattivante” e, se notate, molto poco spazio al prodotto che effettivamente dovrà essere venduto (l’inesplicabile nuvola fucsia ottiene quasi più tempo in inquadratura che il profumo), davvero non potrebbe essere esempio più lampante di ciò che ho cercato di analizzare finora.

Menzione “speciale” anche a questo spot Arbonne e questo di Yves Rocher, per la loro capacità di integrare un altro elemento di manipolazione all’insieme (il presunto virtuosismo ambientalista dell’azienda), questa recentissima promo di LuLaRoe, che sembra pubblicizzare una no-profit, piuttosto che una marca di vestiti, per finire questa pubblicità degli anni ‘70 della Tupperware, che usa sapientemente l’immagine sfocata di accorte donne di casa e la promessa di un non meglio specificato regalo per convincere la (anch’essa, presumibilmente) donna di casa che avrebbe visto lo spot ad organizzare un “Tupperware Party”, che avrebbe poi convinto altre casalinghe a fare lo stesso e così via. Non ha un vero climax, questa tragicommedia. A dirla tutta, ha malapena una conclusione. Dopotutto, come accennavo sopra, questo articolo, e questo argomento in generale, rappresentano solo il primo passo di un percorso molto più lungo. E poi, le luci della platea sono accese, ormai. È quasi ora di andare a casa. Quello che però mi sento di dire, arrivata a questo punto, è questo: se una cosa sembra troppo bella per essere vera, molto probabilmente lo è. Soprattutto se fa parte di un messaggio pubblicitario. Le MLM sono business costruiti sulla miseria, in ogni senso del termine, retti sulle spalle di centinaia di migliaia di persone (come visto prima, spesso donne) che, perché continuino a funzionare, devono necessariamente perdere. Soldi, tempo, dignità. E quale modo migliore per convincervi a stare al gioco, a farvi rimanere a bordo per un tempo sufficiente a far scattare in voi il meccanismo del “costo irrecuperabile”, che fare leva sui vostri valori, i vostri sentimenti più profondi di giustizia e di desiderio di realizzazione personale? Non importa se, nella realtà nella top 10 mondiale di chi guadagna di più con il Network Marketing ci siano solo 3 donne e che solo il 5% dei CEO delle varie MLM lo sia. Con questo non voglio dire che la soluzione sia più donne a capo di queste aziende, o più donne che distribuiscono con successo i loro prodotti, perché una donna in una posizione di potere all’interno di un’istituzione fondamentalmente corrotta non ci darebbe ragione di festeggiare.

Che fare, quindi? Beh, il mio consiglio più immediato deve necessariamente essere: non lasciatevi abbindolare dalle MLM. Siate vigili riguardo alle offerte di lavoro che vi sono fatte: sì, certo, il capitalismo è la piramide finanziaria per eccellenza (vedi sopra), ma certe piramidi, diciamo, sono più ripide di altre.



Anna


Appendice: Alcune fonti dichiarano che Avon sia la prima: fondata nel 1886 con lo squisitamente pragmatico nome di California Perfume Company. C’è chi dice però che, se volessimo essere pignoli, la prima azienda ad introdurre l’idea di “premi” basati sulla quantità di persone reclutate con successo sia stata invece Nutrilite (produttrice di integratori alimentari, ora sotto l’ombrello Amway) negli anni ’40. Altri ancora dicono invece che sia stata la concorrente Watcher’s, fondata nel 1932. La compagnia ha chiuso i battenti nel 2021 (il dominio del loro sito è in vendita! Chi se la sente di fare un’offerta?), ma è ancora possibile leggere la storia del suo fondatore, Joseph V Wachter, prodigio del pianoforte di un paese non meglio definito dell’Europa dell’est, malato di tubercolosi e curato da nativi americani in Alaska con “erbe del mare” (anch’esse non meglio definite); vista la sua guarigione miracolosa (parole sue, non mie), egli decise che “negli antichi rituali degli Indiani [sic] giacessero i segreti di una vasta, riserva non ancora sfruttata di cibo dal mare che dovesse essere portata all’umanità intera.” Per raggiungere questo scopo, Wachter a quanto pare decise di raggiungere New York a piedi da Nome (la città di Balto, per intenderci), per poi raggiungere San Francisco, sempre a piedi. Non è chiaro se abbia mai poi rifatto il percorso al contrario per condividere un po’ della ricchezza accumulata grazie ai loro insegnamenti con i suoi amici a nord.

Tutto ciò è importante ai fini dell’articolo? No. Ma non potevo non condividere con voi questo delirio.

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