Rom e sinti italiani, ottant'anni dopo, attendono che lo Stato italiano riconosca il loro Samudaripen e lo parifichi alla Shoah
“Samudaripen” è la parola che nella lingua romanì parlata dalle comunità rom e sinte indica il genocidio nazifascista, come “Shoah” per gli ebrei, e vuol dire «tutti morti». Rom e sinti, almeno 500 mila, furono deportati e sterminati in tutta Europa per motivi razziali, come accadde agli ebrei. E tuttavia, a ottant'anni di distanza da quel 27 gennaio 1945 in cui i cancelli di Auschwitz furono abbattuti, i rom e i sinti in Italia restano esclusi dal ricordo collettivo del Giorno della memoria, che una legge nel 2000 ha istituito.
Il testo di legge ricorda gli ebrei e i deportati politici italiani, ma omette il ricordo dei rom e dei sinti e delle altre categorie di persone colpite dal nazifascismo: “omosessuali”, “disabili”, Testimoni di Geova. Benché varie proposte per la correzione della norma siano state avanzate negli anni, a partire dal 2011 – l'ultima nel 2019 – nessuna è mai giunta alla discussione in Parlamento.
L'esito è che il Samudaripen non appartiene ancora alla Memoria della società maggioritaria. E il pregiudizio razziale di matrice nazifascista ha continuato a vivere, alimentando lo stigma sociale e la marginalizzazione, istituzionale, politica, culturale dei rom e dei sinti, in un Paese in cui il tasso di antiziganismo rilevato è dell'87%.
Appena due anni fa, nel gennaio 2023 è stata posta la prima pietra d'inciampo per un rom e sinto, in piazza della Libertà a Trieste. «Cioè da due anni si è fatto un gesto ufficiale di riconoscimento del Samudaripen. Ma a livello statale, quindi attraverso una legge, il riconoscimento ancora non c'è» spiega Gennaro Spinelli, attivista e presidente dell'Unione delle comunità romanès in Italia (UCRI).
Eppure in Italia furono attivi campi di concentramento per rom e sinti a Boiano (Campobasso), Agnone (Isernia), Tossicia (Teramo), Prignano sulla Secchia (Modena), Berra (Ferrara), Gonars (Udine), e altri ancora, oltre ai luoghi di confino, carcerazione e prigionia, da alcuni dei quali si finiva ad Auschwitz, Dachau. Luoghi che definiscono una mappa della memoria dislocata lungo tutta la penisola. E ricostruita grazie alle testimonianze orali e ai documenti d'archivio. Perché in molti di questi luoghi non è rimasta alcuna traccia del passaggio delle comunità rom e sinte durante il periodo fascista e nazifascista. Spinelli racconta, per esempio, che solo da qualche anno la sua famiglia è riuscita a risalire al luogo della deportazione del nonno, individuandolo in Rapolla, nella provincia di Potenza, e in particolare all'interno di un ex edificio scolastico che oggi non esiste più.
Il mancato riconoscimento istituzionale del Samudaripen s'inscrive nel quadro di una più generale invisibilizzazione delle comunità rom e sinte come gruppo sociale. «Noi in Italia», dice Spinelli, «stiamo lottando per essere riconosciuti come cultura, prima che come vittime di genocidio. La società maggioritaria ha solo due visioni delle comunità romanès: una è quella bohémien, di viaggiatori, erranti che passano la vita sotto gli alberi a suonare la chitarra, l'altra è quella di accattoni, ladri, criminali. Senza vedere la realtà dei fatti, cioè che siamo persone normalissime e parliamo di una popolazione residente in Italia da sei, quasi sette secoli; siamo italiani da prima che l'Italia fosse una Nazione». E continua: «In Italia oggi rom e sinti non esistono dal punto di vista istituzionale: come minoranza storico-linguistica non sono ufficialmente riconosciuti, e le loro identità culturali sono ignorate o negate, nonostante la presenza storica».
Quella per il riconoscimento istituzionale del Samudaripen e per il riconoscimento della minoranza storico-linguistica rom e sinta, all'interno della normativa italiana approvata nel 1999 che tutela le minoranze, sono due lotte che finora sono state portate all'attenzione in modo congiunto.
La scarsa conoscenza e tutela dell'identità storica e culturale di una minoranza che conta in Italia 180 mila persone, di cui oggi circa 10 mila, il 6%, vivono nei campi, tiene in vita stereotipi che vengono rilanciati di continuo nel discorso pubblico. Nel cui spazio, dice Spinelli, rom e sinti «sono rappresentati spesso unicamente come “problema sociale”».
Si tratta in buona parte degli stessi pregiudizi che durante il nazifascismo hanno giustificato lo sterminio: asocialità, criminalità, devianza dalla norma, che allora si dicevano irrecuperabili perché trasmesse per via ereditaria come tratto dominante “del carattere”.
Pregiudizi che il ricordo istituzionale avrebbe spazio smascherare, riconducendoli alla propria matrice vecchia di almeno ottant'anni. Valendosi di quei «momenti comuni di riflessione dei fatti», delle celebrazioni e iniziative che la legge prescrive nel Giorno della Memoria, in particolare all'interno delle scuole di tutti gli ordini.
In Italia è la 211 del 20 luglio 2000 che istituisce la ricorrenza del 27 gennaio come «Giorno della Memoria». In ricordo, si legge nell'intestazione della legge, «dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati politici italiani nei campi nazisti».
Da allora sono stati quattro i disegni di legge che hanno proposto la modifica e l'integrazione del testo con riferimento esplicito «al popolo dei rom e dei sinti» e al «Porrajmos». “Porrajmos” («grande divoramento») è l'altra parola per designare il genocidio, «ma a Porrajmos preferiamo Samudaripen», spiega Spinelli, «per allinearci agli altri Paesi. Perché se nei dialetti che romanì che parliamo in Italia è una parola corretta, in certi dialetti francesi ha anche un'accezione sessuale». E in alcune comunità significa persino stupro.
Tra i quattro disegni il più completo è stato formulato nel 2014, e ripreso, identico nel testo, nel 2019: parla di «estensione del ricordo a tutte le vittime delle persecuzioni etniche, sessuali, sociali e religiose, deportate nei campi di sterminio nazisti». E la modifica avrebbe previsto l'introduzione nel testo degli «appartenenti al popolo dei Rom e Sinti, degli “omosessuali”, “dei disabili”, dei Testimoni di Geova».
Il problema di queste proposte di legge è che non sono mai state discusse in Parlamento, come spiega Dijana Pavlović, attivista, vice presidente dell’associazione Upre Roma e riferimento per il movimento Kethane, Rom e Sinti per l'Italia. “Il punto non è solo presentare una proposta di modifica alla legge, per questo ci sono forze politiche disponibili a firmare. Ma riuscire a portarla in discussione, per approvarla o almeno rigettarla».
Una delle motivazioni al mancato riconoscimento, come spiega Pavlović, all’interno della normativa che istituisce il Giorno della Memoria, è il fatto che l'Italia ebbe le leggi razziali che colpirono gli ebrei, e non i rom e sinti. «Ma la contraddizione sta nel fatto che la legge ricorda anche i deportati politici italiani. In ogni caso, ci fu un'azione documentata contro rom e sinti, la direttiva di rastrellare e deportare tutti gli “zingari” presenti sul territorio italiano. Ci furono dei campi appositamente per loro. Perciò anche i rom e sinti furono deportati dallo Stato italiano, con indicazioni che non passarono attraverso le leggi».
Un'altra motivazione è quella dei numeri, numeri che nel pensiero di moltissimi rendono la Shoah un unicum. «Ci pongono molto il problema dei numeri: se anche volessimo affrontare la questione da questo punto di vista, e non è così, bisogna considerare su quale piccolo numero tu prendi il numero degli almeno 500 mila rom e sinti sterminati, e in quel momento in Europa 500 mila era un numero drammatico rispetto alla popolazione intera, significativo esattamente quanto 6 milioni».
Un terzo argomento, confutabile da una grandissima quantità di documenti, incluso il lavoro svolto da Robert Ritter e Eva Justin per il Centro di ricerca sull'igiene razziale e la biologia della popolazione del Reich, è che lo sterminio dei rom e dei sinti non sia stato condotto su base razziale, a differenza di quello ebraico. Testimonia Pavlović: «Ho fatto parte di una delegazione in cui ho sentito: “Ma voi siete stati sterminati come asociali, cioè criminali, e non per motivi razziali”».
La proposta di legge più recente per il riconoscimento del Samudaripen è stata presentata il 29 luglio 2024. L'iniziativa è dell'onorevole Devis Dori del gruppo parlamentare AVS e il titolo della proposta: «Istituzione della Giornata nazionale della memoria del genocidio dei rom durante la seconda guerra mondiale». Non dunque un itervento sulla normativa del 2000. Ma una legge ad hoc per una Giornata della Memoria del genocidio rom individuata nel 2 agosto, data in cui, nel 1944, lo zigeunerlager di Auschwitz, il settore predisposto per le comunità romanès, fu liquidato in una sola notte. E circa 4.000 persone mandate a morire nelle camere a gas.
Nel deserto del riconoscimento istituzionale attuale si tratta di un passo importante, ma, dice Dijana Pavlović «non siamo disposti ad accettare un contentino. Il motivo è che il Paese commemora un Giorno della memoria, che è simbolicamente la liberazione di Auschwitz. Dove si trovava anche lo zigeunerlager, in cui i rom e i sinti erano internati non solo come individui umani, ma come razza. Perciò dobbiamo fare parte del mainstream e delle commemorazioni ufficiali. Quel giorno noi vogliamo essere presenti e chiediamo che il Samudaripen sia equiparato in tutto e per tutto alla Shoah, perché è stato identico, uguale, non c'è differenza».
A ottant'anni dalla fine di Auschwitz urge una memoria collettiva che sia davvero inclusiva, all'interno della quale siano riconosciute, distinte e valorizzate le storie e le esperienze dei gruppi sociali minoritari o minorizzati. Per i quali spesso c'è stata, come dice Pavlović, «una continuità, un prolungamento delle forme del genocidio». E che lo si faccia in primis, e come atto dovuto, a partire dalle istituzioni e dalle leggi, che hanno il potere di mettere in campo strumenti la cui efficacia è misurabile sul metro dell'intera cittadinanza.
di Federica Monterisi
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